Storari, Delneri e Marotta. Tanti hanno messo a confronto la serataccia di domenica contro la Juventus con quella maledetta del 25 aprile con la Samp. Ci mancavano soltanto le lacrime di Mexes: eccole. Crociato, fuori cinque mesi, finita la stagione. E il volto di Philou rischia di essere quello della Roma. Ma non è così. E magari il francese resta qui.
A Mexes verrebbe voglia di dire quello che il presidente Dino Viola disse proprio dopo un Roma-Juventus perso: «nulla è perduto» (qualche tempo fa un gruppo ci fece pure il ritornello di una bella canzone). Nulla è perduto. La stagione deve ancora iniziare. Consideratevi a Brunico, che manco è lontanissima da Udine dove sabato sera ci giochiamo trequarti di qualificazione Champions, anche se senza tifosi per via di quell’abnormità civile che è la Tessera del Tifoso. Semplice. La ricetta l’ha data Montella già prima della Juventus: bisogna vincere e basta. Prendiamo il lato positivo: è finito il tempo delle interpretazioni e delle speranze troppo masticate, se non si vince a Udine il quarto posto è pressoché impossibile, al contrario starebbe lì a portata di mano. Quindi le lacrime lasciamole da parte. Per adesso. Anche perché il discorso è un altro.
Si parla del quarto posto come di un trofeo, come di una coppa, come di un successo, ma non è niente di tutto questo. Il quarto posto può essere un obiettivo della Sampdoria di Storari, Delneri e Marotta, ma non della Roma: Mexes non pianse per quello. Il quarto posto è un obiettivo di questi tempi televisivi, un incentivo al capitalismo pallonaro, un non trofeo del calcio moderno. Non ha niente di poetico, di romanista, di memorabile. Fortunatamente allo stadio, in quello che resta il posto più bello del mondo che è la Curva Sud - ancora non si è sentito cantare «Vinceremo, vinceremo, vinceremo il quarto posto». Il quarto posto è la mortificazione di un animo tifoso, cioè avvincente, rivoluzionario, romanista. Si può tifare per il quarto posto perché - ragionevolmente - si arriva - come storia impone - sicuramente sopra la Lazio, ma farsene una malattia proprio no. E chi se la fa? Fra l’altro l’Europa League è una coppa che si può vincere già così. E l’Europa League ti porta a giocare la Supercoppa: per regolare i conti con la storia. Nulla è perduto in questa stagione, non solo perché quella del futuro è proprio dietro l’angolo (e la curva che è rimasta piena a sventolare domenica sera, anche quel tipo di promessa s’era messa a cantare). Perché la Roma un trofeo ce l’ha da vincere: è il trofeo più tifoso che ci sia. Soprattutto per chi è romanista. La Coppa Italia è Tancredi che para i rigori, è il successo che annuncia Falcao, è la coppa che apre il ciclo, la coccarda, l’ultimo minuto di Cerezo. La Coppa Italia è l’ultima cosa toccata da Di Bartolomei da romanista. La Coppa Italia è l’ultimo sorriso di Viola. E questa Coppa Italia vale più di tutte le altre: sarebbe quella della stella, quella del sorpasso ragazzino alla Juventus (chi è che da bambino non s’è messo a contare ogni volta le coppe nostre con quelle loro?). Sarebbe esattamente il modo per regolare Storari, Delneri e Marotta. E poi volete mettere un trofeo vinto eliminando Lazio, Juventus, Inter e in finale probabilmente il Milan!? Manco da ragazzini uno si acchittava una striscia del genere. Roba di sogni e di coppe e di campioni. Cioè di lacrime e preghiere. Magari quelle che sta facendo Mexes, immaginando il suo sorriso all’Olimpico proprio contro il Milan, mentre a bordo campo alza quella coppa e dice a Berlusconi e Galliani: "No grazie". Sarebbe un bellissimo no al calcio moderno..!
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